La ricerca muove da un dato noto, l'interferenza grafica manifestatasi nell'area anatolica già nel II millennio, con l'introduzione del cuneiforme per la notazione di lingue indoeuropee quali ittito, palaico e luvio, e poi particolarmente evidente nel I millennio, dove una serie di lingue indoeuropee "minori", dal lidio al licio, dal miliaco al cario e al frigio adotta sistemi grafici parzialmente o totalmente adattati dal greco. Questi sistemi grafici offrono una importante chiave di lettura per chiarire una annosa questione che affonda le sue radici nella linguistica indoeuropea dell'Ottocento, quella delle dorsali indoeuropee, le cui tre serie incluse dai Neogrammatici nella loro trattazione sistematica sono state più volte messe in discussione, nonostante la testimonianza di albanese e armeno, lingue satem che tuttavia conservano distinte anche le labiovelari avanti a vocale palatale. Proprio la tradizione grafica di queste lingue - nel cui novero si comprendono per completezza anche il frigio, nonostante appartenga a un diverso gruppo linguistico, e il luvio, pur se attestato prevalentemente in cuneiforme nel II millennio e in geroglifico nel I millennio - consente di definire con buona approssimazione gli esiti delle dorsali indoeuropee e di formulare ipotesi suffragate da etimi solidi riguardo al duplice o triplice esito di tali fonemi consonantici. La questione, sollevata da Roberto Gusmani alla fine degli anni '60, è stata oggetto di vari contributi nel corso degli ultimi trent'anni, da Melchert a Kimball, da Tischler a Kloekhorst, per citarne solo alcuni, ma la diversità delle soluzioni proposte (cf. "inquadramento della ricerca" e "stato dell'arte") testimonia la necessità di un'analisi complessiva, che raccolga tutti i documenti utili a tal fine.
La ricerca qui presentata si presenta innovativa sotto due punti di vista: per un verso intende correlare l'analisi di un mutamento fonetico con la valutazione sistematica degli aspetti grafici inerenti ai documenti anatolici di I millennio, che per la maggior parte offrono la possibilità di riscontri puntuali, dal momento che tali lingue hanno adottato un alfabeto non epicorico, sia pure adattato alle peculiari caratteristiche del loro sistema - oggi diremmo "fonologico" -, e presentano in più occasioni testi bilingui o trilingui, nei quali la lettura della versione greca o di quella aramaica è sostanzialmente certa; per altro verso si propone di raccogliere l'intera documentazione pertinente alla questione, in modo da poter effettuare una valutazione sistematica degli esiti delle dorsali originarie. Innovativo il metodo, dunque, ma di non poco rilievo anche i possibili risultati, che discendono non solo dallo studio mirato delle attestazioni relative al fenomeno considerato, ma si avvalgono anche di una specifica competenza comparativa, dove le pietre di paragone, albanese ed armeno, sono note, nel caso dell'albanese al proponente (che a tale lingua ha dedicato una ventina di contributi scientifici) e a uno dei componenti (albanologa a tempo pieno) e nel caso dell'armeno all'intero gruppo (lo studio dell'armeno appartiene a pieno titolo alla tradizione scientifica della scuola glottologica romana e del suo Maestro Walter Belardi). Coniugare pertanto una attenta analisi filologica con la comparazione, specialmente orientata su lingue che mostrano un esito triplice e distinto delle dorsali indoeuropee, rappresenta una chiave di lettura dei dati particolarmente promettente, tale da racchiudere concrete possibilità di realizzare un significativo avanzamento delle conoscenze, sciogliendo in modo decisivo il nodo della ricostruzione delle occlusive dorsali indoeuropee, con ciò portando alle conseguenze finali le intuizioni avute da alcuni studiosi che si sono occupati della questione, e in special modo Craig H. Melchert.