In questo studio intendo ricostruire i diversi momenti della fortuna italiana del fr. 10 W. (= frr. 6-7 G.P.) del poeta Tirteo, un testo che è stato caricato di molte implicazioni nella storia moderna e contemporanea. Si tratta con buona probabilità dell'elegia più conosciuta del poeta greco, contenente il detto celebre che Orazio tradusse "dulce et decorum est pro patria mori" nell'ode che Giorgio Pasquali avrebbe definito "la più difficile, forse la sola difficile di tutto il ciclo" delle odi romane (carm. 3. 2.13).
In Europa la fortuna moderna e contemporanea di questo frammento prende le mosse in età rinascimentale, in prospettiva anti-turca, e da allora sarebbe stata ininterrotta. Nell'intento di arrivare a una ricognizione il più possibile completa e di individuare continuità e differenze nella diacronia, la presente ricerca è limitata all'Italia e a un periodo che è stato suggestivamente chiamato "lungo Risorgimento", del quale si può individuare un inizio alla fine del Settecento e un punto di arrivo nel primo Dopoguerra. Il Risorgimento costituisce, infatti, lo sfondo di gran parte delle traduzioni e delle pubblicazioni tirtaiche, a partire dal militarismo erudito della cultura napoletana di fine Settecento (Onofrio Gargiulli) fino ai testi epigrafici predisposti per i caduti della Grande Guerra passando attraverso i primi timidi tentativi di mobilitazione dell'aristocrazia piemontese, naufragati nel 1821, e l'entusiasmo suscitato dai moti del 1848.
Credo che nell'ambito più circoscritto della ricezione della lirica arcaica in Italia e, in particolare, di quella tirtaica, si possa indicare un termine cronologico ulteriore nel 1940, anno della pubblicazione dei "Lirici greci" di Quasimodo. Con quella data finì l'approccio ideologico al motivo della "bella morte" in guerra, risalente in Italia perlopiù al patriottismo ottocentesco e poi rivisitato e rifunzionalizzato nel primo Novecento.
Una ricerca come quella proposta viene a riempire un vuoto e a gettare un ponte tra diversi ambiti del sapere, spesso non comunicanti tra loro. Non mi riferisco solo alla filologia classica e alla letteratura italiana, ma anche in generale alla storia moderna e contemporanea e alla storia della cultura. Se Tirteo oggi non è tra i poeti greci più famosi, una preliminare ricognizione del numero di traduzioni realizzate nell'Ottocento dimostra che il nostro paradigma è decisamente diverso da quello del passato.
Alla luce del lavoro già svolto, credo che i punti di forza di questo progetto si possano ricondurre ad almeno due ambiti:
a) filologico, anche nell'accezione di critica testuale;
b) storico, nella dimensione di storia della cultura e di ricezione del mondo antico.
Dalla rilettura di Tirteo attuata nell'Ottocento emergono, infatti, i seguenti dati:
1) Molti tra i traduttori appartenevano al clero, nutrito di studi classici e animato da una forte vocazione patriottica, nonostante l'ostilità della Chiesa al processo risorgimentale. Mi limito a fare i nomi di Giuseppe Arcangeli, Sante Bentini, Leopoldo Taruschio e Raffaele Baratti.
2) Il Risorgimento plasmò un'immagine decisamente accomodata, se non falsata, di Tirteo come poeta-eroe, cantore della liberazione degli oppressi, nella fattispecie gli Italiani, nonostante le iniziali riserve di una figura come Santa Rosa (1817). Secondo le fonti antiche, infatti, Tirteo aveva guidato gli Spartani in una guerra di conquista, quale fu la seconda guerra messenica, ma furono in pochi nell'Ottocento a rilevare l'incoerenza della rilettura risorgimentale e patriottica, che ne faceva invece un bardo impegnato nella liberazione dei popoli sottomessi a potenze straniere. La ricerca di voci critiche rispetto a tale fraintendimento di fondo mi ha condotto finora a individuare tre personalità fuori dal coro: l'italiano Santa Rosa, il critico francese Raynouard, il filologo greco Koraìs.
3) Il mito ebbe presto i suoi detrattori e già alla metà del secolo è dato registrare il rovesciamento dell'immagine di Tirteo come poeta valoroso presso alcuni ambienti anti-risorgimentali, persino in una lettera dello stesso Cavour, stanco del velleitarismo di scrittori e intellettuali capaci solo di infiammare le masse, salvo poi fuggire. A Tirteo, prototipo del cantore della libertà della patria, veniva così attribuito un tratto nuovo: la fuga opportunistica dal pericolo, e dall'Italia. Si trattava di una sorta di parodia del mito risorgimentale, alimentata dalla scelta dell'esilio comune a molti intellettuali italiani, come Gabriele Rossetti e Giovanni Berchet, "Tirteo italico" secondo Giuseppe Arcangeli nella dedica del 1849. Tale immagine trova diffusione nella stampa conservatrice dei decenni centrali dell'Ottocento, di orientamento perlopiù cattolico e antirisorgimentale (basti pensare ai "Tirtei missionari e liberi professori" cui allude con polemico distacco la "Civiltà cattolica" nel 1851), ma arriva anche al già citato Cavour, come si ricava dalla lettera all'Intendente generale di Genova del 13 gennaio 1859: "Gli uomini seri, i giornali dovrebbero volgere in ridicolo questi canti, che senza aver l'ingegno di Tirteo fuggono come lui".
Una trattazione diacronica consentirà, pertanto, di valorizzare testi perlopiù negletti e di apprezzare l'evoluzione dell'immagine del poeta a partire dal militarismo tardo settecentesco di Onofrio Gargiulli (1791) e dall'entusiasmo protorisorgimentale di Luigi Provana (1816), amico di Santa Rosa, fino al Tirteo nazional-popolare di Giuseppe Arcangeli (1838). Quest'ultimo aveva il vantaggio di un ritmo cadenzato, ma già proveniva da un ambiente clericale e giobertiano e scontava una certa distanza dalla passione politica e dall'intelaiatura ideologica del Tirteo piemontese del 1816. Poco conta che quello di Arcangeli fosse ben lontano dal tradurre fedelmente l'originale, ma si presentasse piuttosto come un testo riscritto: il distico iniziale, "è bello, è divino per l'uomo onorato / morir per la patria, morir da soldato" aveva i requisiti della cantabilità e della parenesi spiritualistica che ne fecero molto presto un apprezzato refrain patriottico, tanto da essere inciso nel monumento ai caduti della Grande Guerra realizzato dal comune di Peschici.
Nel secondo Ottocento la stanchezza del motivo risorgimentale non impedì fenomeni isolati di personalità che cercarono nuove battaglie per cui spendere il proprio impegno, come Cavallotti, il "Tirteo lombardo", ma anche riprese canzonatorie, come il "commendator Tirteo" rivolto da De Amicis a Carducci. Era iniziata l'epoca delle celebrazioni dell'epopea appena conclusa, il cui mito, almeno per la poesia tirtaica, divenne il giovane Mameli - complice Carducci -, ma sullo sfondo continuavano a essere letti, recitati e imparati i dodecasillabi sonanti di Arcangeli (1838), incisi nella memoria di generazioni di studenti, come dimostra una lettera di un soldato durante la Prima guerra Mondiale.