«Una biblioteca mia non riesco mai a tenerla assieme»: gli scaffali reali e ideali di Italo Calvino
Se la letteratura, per Calvino, ‘è fatta’ di biblioteche, di
contro, le biblioteche sono sistemi per ‘fare’ letteratura, per
inventarla, rappresentarla, desiderarla, e classificarla, nella
scissione fra un senso di frustrazione e di appagato piacere
che ogni tentativo di conoscenza, e di ordine, cela. Ogni biblioteca
– interna o esterna, intima o reale –esprime una selezione
della mente per costruire un modello possibile di
catalogazione. Catalogare, classificare, dividere, separare,
distinguere serve a difendersi dal caos del mondo, con una
razionalità che è pura forma d’invenzione e creatività.
Calvino alla sua morte, nel 1985, ha lasciato due importanti
‘opere interrotte’, biblioteche possibili della letteratura,
l’una speculare all’altra: l’una è una ‘biblioteca d’autore’,
fatta di libri (la biblioteca di Campo Marzio), l’altra una ‘biblioteca
pensata’, fatta di parole (Lezioni americane).
Entrambe senza un inizio e senza una fine, non catalogabili,
se non nella molteplicità e complessità delle potenzialità; non
classificabili perché, in esse, i libri sono, come li considerava
Cosimo Piovasco di Rondò «un po’ come degli uccelli»2 e
nella vita di una persona non sono ingabbiabili, sono
dappertutto, o da nessuna parte, sia fuori che dentro.
L’una è un ‘ideale di biblioteca’ proiettato nella rappresentazione
di un sistema stratificato di una memoria classificatoria
che determina la mappa dei libri, l’altra è una
‘biblioteca ideale’ costruita sfogliando nella memoria immaginativa
la propria biblioteca interiore. La biblioteca di
Italo Calvino si colloca fra l’una e l’altra: bisogna individuare
il punto in cui la biblioteca pensata non coincide con quella
vera per trovarla, come la fortezza d’If.