Vestire il regime. Moda e potere economico durante il ventennio fascista

02 Pubblicazione su volume
CAPALBO, Cinzia

Partendo da un'analisi della situazione economica italiana dei primi anni venti del '900, per arrivare alla fase autarchica della seconda metà degli anni trenta, il saggio esamina innanzitutto la risposta dell'italia alla carenza di fibre tessili,soffermandosi sulla ricerca di fibre "autarchiche e sulla loro effettiva produzione, in particolare il rayon. Uno spazio particolare è dedicato alla moda maschile che, proprio durante il Ventennio, si cerca di "emancipare" dall'estero, sia dal punto di vista delle importazioni, sia dell'imitazione degli stilemi, prevalentemente inglesi. In un clima culturale e politico favorevole all'emersione di una moda italiana, la La sartoria maschile riuscì a creare uno stile italiano che partì dall'innovazione della giacca inglese, ritenuta troppo rigida e poco pratica per "l'uomo moderno". La misoginia culturale del Ventennio, che attribuiva alla donna essenzialmente il ruolo di madre e moglie, mise al centro il “maschio” e i cambiamenti e le innovazioni che durante gli anni dell'autarchia si registrarono nella moda maschile italiana, si legarono indissolubilmente alla dichiarata volontà di creare uno stile indipendente da quella inglese che rispecchiasse l'immagine dell'”uomo nuovo” fascista. Il modello maschile, proposto dal regime era quello di un umo virile, la cui mascolinità doveva trapelare da un modo di vestire sobrio e dinamico e da un fisico forgiato dallo sport. Nella ideologia del regime, l’attività sportiva era ritenuta necessaria per diffondere una nuova mentalità “antiborghese”, basata sul rifiuto degli agi e della vita comoda, volta alla ricerca di valori superiori come la bellezza, il sacrificio, l’eroismo. La volontà di diffondere nella popolazione un forte spirito militarista, ebbe come conseguenza che l’uniforme non fosse ritenuta solo una tenuta del soldato, ma fosse utilizzata anche in manifestazioni della vita civile come, per esempio, nella divisa dei giovani Balilla. Il capo-simbolo dell’uniforme del regime fu tuttavia la camicia nera. Nell’ideologia di potenza, alla base dell’immagine dell’uomo fascista, l’innovazione della moda maschile venne associata alla città di Roma. La capitale italiana, infatti, oltre ad ospitare alcune tra le più importanti sartorie d’uomo dell’epoca, quali Caraceni, Cifonelli, Cucci, Branchini, rappresentava anche il mito dell’antica potenza imperiale romana, su cui il regime aveva fondato la sua simbologia. Il fascismo ebbe dunque una grande influenza sulla maschile. Essa si caratterizzò di significati politici e ideologici che travalicarono le semplici questioni di stile, proprio perché il regime attribuì all'uomo una maggiore rappresentatività sociale rispetto alla donna. In particolare nel clima autarchico degli anni trenta, la ricerca di una moda maschile “puramente” italiana si accomuna con quella dell'identità nazionale che impone il recupero di moduli stilistici italici, l'utilizzo di materie prime nazionali, la creazione di prodotti in grado di rafforzare sia all'interno che all'esterno del paese l'immagine di un “uomo nuovo”, interprete di un nuovo corso politico, sociale ed economico.

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