Tutto il mondo è figura. Anatomia, cartografia e teologia nella poesia di John Donne
L'articolo indaga la crisi della rappresentazione medievale del mondo e la riconfigurazione moderna che la cultura inglese tra Cinque e Seicento registra e che trova una testimonianza straordinaria, per complessità e audacia, nella poesia cosiddetta metafisica di John Donne. In particolare, si analizzano i testi poetici in cui l’enciclopedismo donniano, che spesso ricorre alla figuralità dei saperi scientifici, delle pratiche cartografiche e anatomiche, e delle dispute teologiche, registra le tensioni centrifughe e la spinta alla frammentazione provocate dalla teologia della Riforma e dalla new science. Le istanze di razionalizzazione e secolarizzazione (o desacramentalizzazione per dirla con Kuchar) che si avvertono in maniera più significativa a partire dal XVIII secolo “fanno a pezzi”, per riprendere i versi dell’Anatomy of the World citati nel titolo, il mondo fino ad allora conosciuto, quello delle corrispondenze neoplatoniche che tenevano uomo e cosmo indissolubilmente legati ma anche spazialmente conchiusi, al punto che nella letteratura del tempo la totalità e l’armonia possono darsi adesso solo come rappresentazioni, ovvero come immagini e figure, parziali, incomplete, che riflettono una nuova concezione del linguaggio e del rapporto che questo intrattiene con la realtà e con le cose, e una nuova epistemologia, storicamente determinata, che deve fare i conti con “nuovi cieli e nuove terre”, o in senso più generale, con uno spazio infinitamente aperto e caotico che Foucault definirà l’étendue, da Donne rappresentato in forme erotiche in To His Mistris Going to Bed.
Accanto alle nuove teorie astronomiche sviluppate da Copernico, Keplero, Bruno, divulgate in Inghilterra tra gli altri da Thomas Digges, e alla “riduzione cartografica” resa possibile dall’astrazione della scienza geografica, la nuova scienza sempre più si dedica al corpo, un tempo “misura del mondo” (Zumthor) e adesso spazio piano che la “rivoluzione anatomica” scandaglia e sezione sulla scorta del De Humanis Corporis Fabrica di Andrea Vesalio, pubblicato nello stesso anno, il 1543, in cui Copernico pubblicò il suo De Revolutionibs Orbium Coelestium.
Distruggendo l’assetto finora ad allora inconfutabile della medicina galenica, Vesalio spalanca lo spazio inquietante del corpo umano, che non è più concepito come anello cruciale della great chain of being medievale che collegava gli esseri più infimi alla perfezione dell’essere divino, ma è indagato con rigore scientifico in virtù di un altro rigore, quello della morte (secondo l’affascinante associazione del geografo Farinelli), che solo permetteva di analizzare, sezionare, anatomizzare, fare a pezzi su di un piano quel “little world”, l’uomo, per ricostituirlo in forme per certi versi irriconoscibili nelle immagini delle tavole anatomiche. È grazie a questi ampi rivolgimenti, che alterano in ultima analisi il rapporto tra segno e referente, che comincia secondo Heidegger la modernità, da lui definita come “l’epoca dell’immagine del mondo”, definizione rovesciata, ancora da Farinelli, che parla invece di “epoca del mondo come immagine”.
Questo nuovo assetto culturale, che comporterà infine il primato della “rappresentazione” sull’esperienza, avrà enormi ricadute sulla cultura inglese caratterizzata inoltre, più di altri paesi, da una crisi generalizzata dovuta all’instabilità politica e religiosa seguita alla nascita della Chiesa inglese. È ciò che ritroviamo in testi come Hymne to God my God in my Sickness e soprattutto The Canonization, dove la smaterializzazione del mondo fisico degli amanti rimanda alle dispute sacramentali sulla transustanziazione, sul rapporto tra substantia e accidens, e sull’eucarestia come rito che riattualizza il sacrificio di Cristo (per i cattolici) o puro segno commemorativo (per i riformati), a dimostrazione di quanto la teologia sia diventato un sapere tra i tanti da decos