
L'indoeuropeo ricostruito, come è noto, non possedeva una classe di aggettivi morfologicamente marcata. I modificatori del nome erano dei nomi a loro volta, usati come complemento o come apposizione. Invece, molte delle lingue storicamente attestate hanno sviluppato una morfologia specifica per codificare i modificatori di una testa nominale. Benché le soluzioni concrete siano state diverse, vi si scorge chiaramente una tendenza generale, che può essere considerata un vero e proprio drift sapiriano, che si scinde in una serie di isoglosse morfologiche convergenti.
Le possibili linee di sviluppo sono due. Nella prima ipotesi (che costituisce l'"Area tematica I") alcune costruzioni sintattiche governate da pronomi vengono gradualmente trasformate in marche morfologiche dei modificatori nominali. Così, la frase relativa retta dal pronome "che/il quale" o anche la frase paratattica retta dal pronome indicativo "quello/colui", passando attraverso lo stadio di frase nominale (con la perdita della copula) e poi acquisendo l'accordo con l'antecedente nominale, si trasformarono gradualmente in marcatori morfologici dei modificatori della testa nominale. I morfemi risultanti potevano essere diversi: specifiche desinenze aggettivali, articoli, l'ezafet persiano, ma la loro funzione, nonché l'origine, appaiono descrivibili come un unico drift.
Nella seconda ipotesi ("Area tematica II"), i marcatori morfologici innovativi dell'aggettivo vengono creati attraverso la rianalisi di morfemi derivazionali preesistenti. Il caso di studio è il suffisso indoeuropeo *-ko-, che ha avuto una formidabile diffusione in molti gruppi della famiglia indoeuropea, e quasi ovunque ha sviluppato una funzione di tipo aggettivale (visto che spesso rappresentava l'estensione dei preesistenti temi "aggettivali" in -i- e -ú-).
Lo scopo del progetto è quello di individuare tutte le lingue in cui si manifestano i due sviluppi sopra descritti e di descriverli come un processo diacronico unitario.
L'analisi della marcatura dei modificatori nominali nelle lingue indoeuropee qui proposta presenta una serie di caratteristiche innovative.
L'approccio unitario e parametrizzato alla diacronia dei nuovi aggettivi slavi, degli aggettivi forti germanici, dell'ezafet persiano e dell'articolo greco non ha precedenti nella letteratura. Finora solo alcuni accostamenti parziali sono stati fatti (vedi i già citati Meillet 1934, Leskien 1876, Neckel 1900). A nostro avviso, rappresentare questi fenomeni come un'unica innovazione con differenze locali descrivibili tramite una serie di parametri ben definiti (locus della marcatura; grado di agglutinazione; posizione rispetto alla radice) permette un avanzamento importante delle nostre conoscenze sulla storia delle lingue IE di I e II generazione.
Quanto al suffisso in velare, le trattazioni esistenti (Edgerton, Debrunner, Degener), in parte risalenti alla prima metà del 1900, presentano diversi difetti, tra cui i seguenti:
1) Il troppo credito concesso alla tradizione grammaticale indiana antica (la scuola di Panini, V sec. a. C.). Le informazioni forniteci dai grammatici indiani, pur rivelatori dell'ipotetica intuizione linguistica che i parlanti indiani antichi avevano del sanscrito, non possono essere adoperate in un'indagine diacronica. Il motivo principale è l'assoluta sincronia dell'approccio grammaticale degli indiani. Quando parlano di derivazioni si tratta comunque di processi derivazionali in sincronia, e non di storia della lingua. Inoltre, l'amore degli indiani per le classificazioni li portò a individuare un numero eccessivo di sottotipi di suffisso in velare, sulla base di minime modificazioni formali (accentuative, quantitative etc.), proprie solo dell'indiano antico, oppure sulla base di piccolissime e sfuggenti sfumature semantiche legate a particolari contesti d'uso. Questo atomismo degli indiani li rende qualche volta incapaci di fare grandi generalizzazioni sulla grammatica del sanscrito.
2) L'aver proiettato la situazione attestata, in particolare, nell'indiano antico sulla fase di protoindoeuropeo ricostruito. Infatti, il suffisso in velare si è diffuso come un drift, già in fase di lingue attestate, in numerosi gruppi della famiglia indoeuropea. Così, i significati morfologici e le funzioni grammaticali codificati dal suffisso in velare si sono notevolmente moltiplicati nelle lingue storiche, con dei salti metaforici ben chiari: da suffisso "peggiorativo" a "ipocoristico", da "aggettivo" a "aggettivo sostantivato", ecc. Quasi nulla, di questa ricchezza semantica, può essere fatto risalire alla fase comune.
3) Non aver fatto un'importante distinzione, tra funzione grammaticale di un suffisso e la sua semantica. Infatti, i suffissi derivazionali si usano, primariamente, per derivare temi flessionali nuovi a partire da quelli preesistenti. Qualche volta per ragioni di livellamento analogico, come quando i sostantivi atematici vengono tematizzati, nelle lingue indo-iraniche, con l'aggiunta del suffisso -aka-. Oppure per derivare aggettivi da sostantivi. La componente puramente semantica del loro significato spesso è trascurabile, e in ogni caso può variare fortemente (si veda il punto precedente).
L'analisi proposta nell'ambito del presente progetto, invece, propone le seguenti migliorie:
-- utilizzare le informazioni dei grammatici antichi con un occhio più critico;
-- basare la classificazione dei suffissi sulla funzione grammaticale, anziché sulle sfumature del valore semantico;
-- mescolare il meno possibile l'approccio diacronico con quello sincronico.