La complessa continuità d'uso che caratterizza il Colle Sant'Elia, su cui sorge la Rocca Albornoziana di Spoleto, rende quest'area molto interessante sotto molteplici punti di vista. In particolare, dal 2007, l'area del cortile nord della Rocca è stata oggetto di una serie di interventi di scavo ad opera del CISAM (Centro italiano di studi sull'alto medioevo), in collaborazione con la cattedra di archeologia medievale dell'Università di Roma Sapienza. Nel corso degli anni le attività si sono focalizzate sullo scavo dell'area circostante la chiesa altomedievale di S.Elia, in cui è presente anche una cisterna. Gli strati in questione sono l'esito di una prolungata attività di smaltimento dei rifiuti protrattasi nel tempo e hanno restituito una gran mole di materiali ceramici, metallici, vitrei, in osso e in cuoio, che coprono una cronologia molto ampia, collocabile tra il XIV e il XX secolo. Essi sono da associare in particolare alle fasi di vita post-medievali, durante le quali l'area, dalle fonti soprannominata "Malborghetto", fu interessata dalla presenza disordinata di una serie di locali annessi alla fortezza sorta nel XIV secolo, successivamente trasformata in carcere all'inizio del XIX secolo e rimasta tale fino al 1984.
Tra i molteplici spunti offerti da questo contesto di ricerca, risulta particolarmente rilevante la presenza di numerosi scarti di lavorazione di ossi animali, riconducibili alla produzione artigianale di bottoni in osso, che ben si sposa con le attività di manifattura tessile svolte all'interno del carcere e attestate dalle fonti archivistiche. Nel delineare gli aspetti tecnologici di questa produzione ancora poco indagata, risulterà fondamentale collocare l'attività all'interno di un preciso arco cronologico effettuando le analisi di datazione al radiocarbonio e, contestualmente, sviluppare un approccio che attraverso l'archeologia della produzione e l'archeologia industriale possa aprire nuove strade verso un'inedita archeologia carceraria.
La lavorazione degli oggetti in osso è un tema meno studiato rispetto agli altri manufatti che ritroviamo nelle indagini archeologiche e in generale ancora meno è affrontata all'interno dell'archeologia post-medievale, che pur rappresentando un settore in crescita e in via di arricchimento, presenta ancora numerose carenze tematiche e ambiti poco indagati in relazione ai pochi studiosi che se ne occupano e alla recente nascita della disciplina. Delineare dunque i caratteri di una produzione relativa alla manifattura artigianale di bottoni, risulta parecchio importante sia per ampliare le conoscenze nell'ambito dell'industria manifatturiera del tessile, sia per concentrare l'attenzione sull'uso delle materie dure animali come materie prime per la produzione di una vasta gamma di oggetti anche d'uso comune. Inoltre, individuare i passaggi della filiera produttiva e dei tecnicismi che la caratterizzano si configura come un lavoro necessario per l'avanzamento delle conoscenze inerenti all'archeologia della produzione.
La datazione al radiocarbonio di alcuni campioni organici permetterà inoltre di collocare cronologicamente queste tipologie di manufatti all'interno di un contesto che è caratterizzato da un ampio arco temporale di riferimento e da una lunga continuità di vita, con usi e destinazioni dell'area anche molto diversi nel tempo. In aggiunta anche l'analisi del cuoio, da associare a quella degli scarti di lavorazione in osso, fornirà un ulteriore metro di confronto, in modo da inquadrare ancor meglio all'interno di una realtà delineata cronologicamente i materiali in questione.
In riferimento a quest'ultimo spunto di analisi, se pensiamo a dei possibili scenari futuri di sviluppo del progetto, una datazione coerente degli scarti di lavorazione in osso e in cuoio potrebbe fornire ulteriori elementi sul comparto produttivo tessile, consentendo di avviare ricerche mirate anche sul cuoio. Condurre ad esempio un'analisi del DNA su alcuni campioni in cuoio, permetterebbe di comprendere quale specie animale è stata utilizzata per produrlo e attuare un confronto con le specie selezionate per la produzione di bottoni. Se l'analisi comparata dovesse produrre un risultato che individua alcuni tipi di specie come denominatori comuni per la produzione sia dei bottoni che del cuoio, si potrebbe ipotizzare un ciclo di produzione completo: dalla macellazione dell'animale, allo scuoiamento, alla lavorazione della pelle, alla maturazione degli ossi e in ultimo alla lavorazione di essi.
Questa tipologia di informazioni è fondamentale non solo per una migliore comprensione del contesto, ma anche per fornire un termine di confronto per i siti e gli scavi che presentano caratteristiche e manufatti simili, oltre a fornire una buona base di partenza metodologica per studi che intersecano l'analisi della cultura materiale, della produzione, del contesto e delle fonti per tematiche e periodi storici affini.
Tenere in considerazione dunque tutte le linee di indagine e cercare di avere uno sguardo a 360 gradi, in questo contesto, significa anche applicare le metodologie proprie dell'archeologia della produzione alla sfera carceraria. Si tratta di guardare agli studi sulle prigioni in modo diverso e non più soltanto in riferimento ai fattori del restauro e dell'analisi strutturale del monumento, come avviene nella maggior parte dei casi soprattutto nel mondo dell'archeologia industriale (A. Parente, Architettura ed archeologia carceraria: Santo Stefano da Ventotene ed il 'Panopticon', in «Rassegna penitenziaria e criminologica», vol. 2 (fasc. 1/3), 1998, pp. 43-137). Un approccio diverso alla cosiddetta archeologia carceraria, che parta dal dato materiale e aiuti a colmare quel divario di cui abbiamo parlato inizialmente tra archeologia della produzione e archeologia industriale, unendo l'attenzione al monumento, il contesto di riferimento, le relazioni di vita quotidiana che passano dagli oggetti e il modo di comunicare tutto questo al pubblico.
Condurre analisi integrate e interdisciplinari, porta inevitabilmente a ripensare anche alle formule di esposizione museale e a ciò che si vorrà in ultimo restituire al pubblico. Nel caso specifico, in Italia non mancano i musei delle pene e degli strumenti di tortura, i musei criminologici e della memoria carceraria, che pur se affascinanti e curiosi nei contenuti, puntano soltanto ad esporre i manufatti ritenuti più incisivi e significativi della vita della prigione, ma poco si soffermano poi sulla quotidianità del carcere e dei prigionieri stessi, fatta di piccoli e grandi oggetti che la incarnano al meglio. Ci auspichiamo, infine, che questo studio possa essere anche una base di partenza e di riflessione per un superamento di alcuni retaggi legati all'esposizione e al modo di vedere i reperti afferenti all'ambito carcerario.