L¿obiettivo del progetto è ricostruire la catena operativa della produzione dei bottoni in osso nella Rocca tardomedievale di Spoleto, dalla preparazione della materia prima alla rifinitura del prodotto. A tale scopo si intende analizzare tramite microscopia a scansione elettronica (SEM) le tracce degli strumenti artigiani, visibili tanto sui bottoni finiti che sui numerosi scarti di lavorazione dell¿osso. Il materiale in esame è stato recuperato dai poderosi livelli di butto che obliteravano la cisterna nel cortile Nord della Rocca, oggetto dal 2007 di sistematiche indagini stratigrafiche condotte dal CISAM (Centro Italiano di Studi sull¿Alto Medioevo), in collaborazione con la cattedra di archeologia medievale di Sapienza, Università di Roma. Il contesto gode di una singolare rilevanza cronologica, testimoniando le fasi di vita post-medievali del sito che vanno dall¿impianto disordinato di strutture e baraccamenti annessi alla Rocca (XVI-XVIII sec.) - ricordati nelle fonti coeve col toponimo di ¿Malborghetto¿ - fino alla trasformazione in carcere all¿inizio del XIX secolo. La particolare natura degli scarti di lavorazione e il preliminare inquadramento tipologico-formale consentono di riconoscere una produzione semi-standardizzata e massiva, che può essere messa in relazione con le attività di manifattura tessile ricordata dalle fonti archivistiche all¿interno del carcere. Ricostruire i diversi passaggi della catena produttiva e identificare con un approccio sperimentale la tipologia degli strumenti impiegati consente di aprire un¿interessante finestra sulle attività svolte all¿interno della Rocca, sul grado di sviluppo tecnologico e sulle implicazioni sociali che se ne possono dedurre.
I piccoli oggetti in osso e la loro produzione costituiscono un tema poco affrontato nella ricerca archeologica, sicuramente meno rispetto alle altre classi di manufatti. Anche nell¿ambito dell¿archeologia postmedievale, disciplina ancora giovane e in corso di codifica, sono pochi i ricercatori che si sono dedicati a questo aspetto specifico di una produzione di massa, basata sullo sfruttamento di materie dure animali accessibili e relativamente facili da lavorare. Delineare i caratteri tecnici e sociali della manifattura artigianale dei bottoni in osso costituisce quindi un elemento nuovo sul piano della ricerca, soprattutto se messo in relazione alle attività manifatturiere svolte all¿interno degli istituti di pena e degli istituti di vita comunitaria (es. manifatture delle monache del convento di S. Rosa a Viterbo, in P. POGLIANI 2020, Testimonianze di cultura materiale, comunicazione al convegno ¿Un monastero, una città. Santa Rosa e Viterbo nel XVII secolo¿, Viterbo 15-15 novembre 2020, in stampa). La stretta relazione tra gli oggetti in esame e il penitenziario è sottolineata dal contesto del rinvenimento e dall¿associazione con altri manufatti legati alla vita dei detenuti: pipe ed accessori da tabacco, stoviglie, contenitori e boccette di vetro per saponi. Inoltre, le fonti documentarie d¿archivio permettono di collocare nel carcere una manifattura tessile di articoli non comuni, tra cui ¿maglie di lana, mutande, mezze calze di lana¿ (B. ROSSI, Fortezza, residenza, carcere. Contributi per la storia dell¿uso della Rocca, in La Rocca di Spoleto: Studi per la storia e la rinascita, Milano 1983, pp. 103-130), che possono essere messi in relazione coi piccoli bottoni ¿da biancheria¿ ritagliati dalle matrici rinvenute nella cisterna. Lo studio dettagliato della catena produttiva, tramite l¿ausilio delle indagini microscopiche, ha quindi il vantaggio di portare nuovi dati sul tavolo dell¿archeologia della produzione, soprattutto nella sua declinazione carceraria, aprendo un focus sul grado tecnologico raggiunto all¿interno dei laboratori della Rocca, sullo strumentario disponibile e sull¿abilità degli artigiani. L¿approccio sperimentale di replica delle tracce ha inoltre il vantaggio, non secondario, di ampliare la banca dati di confronto per altri studiosi che volessero accingersi allo studio microscopico delle tracce su osso, anche al di fuori di una sfera strettamente produttiva.
Applicare i metodi propri dell¿archeologia della produzione alla cultura materiale di un complesso carcerario permette inoltre di superare lo sguardo ¿parziale¿ finora avuto nel tema dell¿archeologia carceraria, polarizzato al pari dell¿archeologia industriale sull¿interesse storico-architettonico dell¿edificio (A. PARENTE 1998, Architettura ed archeologia carceraria: Santo Stefano da Ventotene ed il 'Panopticon', in «Rassegna penitenziaria e criminologica», 2, pp. 43-137), come brillantemente suggerito dal caso del carcere di S. Domenico a L¿Aquila (M. D¿ANTONIO 2011 (cur.), San Domenico all¿Aquila. Il restauro del complesso monumentale. Sommacampagna). Un approccio diverso che, partendo dal dato materiale, aiuti a colmare il divario tra contenitore e contenuto, accendendo l¿attenzione sui gesti e sui piccoli oggetti che facevano parte del quotidiano dei carcerati.