L'ordine del discorso politico

06 Curatela
Lombardo Carmelo

E’ possibile individuare un ordine del discorso politico nel momento del declino della politica? Nel momento che, fuori dal Novecento che ne è stato il secolo dell’espressione più compiuta, la sua narrazione dei tempi storici e delle società si è trasformata in linguaggio quotidiano? Nel momento che, anziché tracciare linee di orizzonte e di futuro, si conclude nello spazio di un presente fine a se stesso? Sono queste domande, espresse nei termini dell’inquietudine, che hanno retto e tessuto le fila delle pagine che compongono questo libro.
Un’inquietudine che, come il titolo scelto suggerisce, rappresenta l’elemento costitutivo rispetto alla nostra relazione con i discorsi, ai dispositivi che contengono e che dispiegano nel loro farsi corpi, principi di organizzazione del mondo, principi di visione e di-visione, principi di sovversioni cognitive possibili, investimenti pratici, mobilitazioni e azioni collettive. Un’inquietudine «nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta; inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine nell’avvertire dietro a questa attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite, dominazioni, servitù attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sì gran tempo le asperità» (Foucault, 1971; tr. it. 2004, p. 4).
Un’inquietudine resa quindi più acuta dal tramonto della politica, e con essa della modernità così come l’abbiamo conosciuta. Perché la politica, come è stato scritto (cfr. Tronti, 1998, p. 5), ha rappresentato la radice della modernità, il fondamento che le ha consentito di dispiegarsi fino alla sua radicalizzazione. Ma il tramonto della modernità, nelle conseguenze che la radicalizzano (cfr. Giddens, 1990; tr. it. 1994), rende la politica possibile piuttosto che necessaria. Indagare lo spazio di questo possibile – o, per meglio dire, dei possibili – significa provare a tracciare nuovi confini entro una rotta ancora da decifrare.
Si tratta di riarticolare le categorie di cui disponiamo, e che ci sono state consegnate in eredità – anche se, per parafrasare Hannah Arendt, si tratta di un’eredità senza testamento. Perché se è vero che la politica come radice e come grande narrazione della modernità è al tramonto, pure avremmo bisogno di distinguere fra la pratica politica e la capacità di giudizio, ovvero fra la politica e il politico. Non semplicemente l’ordine politico, dunque, ma un punto archimedico a partire dal quale si può riflettere sull’ordine politico. Nella loro caratterizzazione grammaticale, il politico e la politica rappresentano gli equivalenti di quella sostantivizzazione degli aggettivi attraverso cui i greci ponevano il generale come un determinato, facendogli assumere significati differenti a seconda del sostantivo cui si riferiva: unità politiche o ordinamenti, gruppi, problemi, processi, conflitti, modi di agire e modi di vedere.
In questo senso, poiché si tratta di un determinato campo di azione, avremmo in altre parole bisogno di distinguere fra la politica come relazione fra le persone e la politica come responsabilità nei confronti del mondo. Com’è noto, è stata Hannah Arendt (1993; tr. it. 2001) a caratterizzare così la politica, perché essa nasce tra le persone, si afferma come relazione e ha al suo centro, sempre, la preoccupazione per il mondo. Cambiare, conservare o fondare un mondo; deserto e oasi – ovvero: scongiurare il pericolo di portare il deserto nelle oasi (ibid., pp. 151-152).
Ma questa distinzione serve per l’analisi, per leggere fino in fondo il progetto e i fallimenti della modernità, perché, nella sua effettualità, il compito della politica è mettere in relazione le persone affinché si prendano cura del mondo. La s

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