Giambattista Vico

02 Pubblicazione su volume
Velotti Stefano

Galileo aveva sostenuto nel Saggiatore (1623) [ 2.6] che l’universo è un grandissimo libro «scritto in lingua matematica» e che per conoscerlo biso- gna «conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto», cioè le figure geometriche. Vico, circa un secolo dopo, aggiunge che prima ancora dei caratteri matema- tici bisogna saper leggere i “caratteri poetici”: l’umanità delle origini, infat- ti – da cui noi tutti discendiamo e che ancora sopravvive in noi – è un’uma- nità rozza e ignorante, e non disponendo di raffinati mezzi razionali per comprendere il mondo lo organizza innanzitutto con la potenza dell’imma- ginazione, con la quale crea “caratteri” che sono, appunto, “poetici” (dal greco poièin, che significa ‘creare’, ‘produrre’). Senza questi “caratteri poe- tici” – le figure del mito, la proiezione delle proprie passioni sul mondo per significare cose ed eventi mediante gesti, immagini e parole – non è infatti
Le domande di Vico
possibile capire la natura della nostra realtà sociale e politica, ma neppure l’emergere delle scienze moderne.
Vico è il filosofo delle origini, dei princìpi dell’umanità: gli ordinamenti giuri- dici e politici, le stesse scienze, non possono essere uscite belle e fatte dalla testa degli uomini. Per stipulare una sorta di contratto sociale che fondi le istituzioni sociali e politiche, per esempio, gli uomini avrebbero già dovuto essere civili e razionali; ma allora il contratto sociale non può essere all’origi- ne di quelle istituzioni, perché presuppone quello che era chiamato a spiegare, cioè il sorgere della civiltà, il dispiegamento della razionalità. Gli uomini, in- vece, all’inizio della storia umana, non erano dei sapienti che nascondevano le loro dottrine in figure mitiche misteriose (in una “sapienza riposta”), ma erano ignoranti e incapaci di raziocinio, anzi erano “bestioni” dominati dai sensi, dalle loro passioni violente, e dotati di una potentissima immaginazione.
Il problema che Vico si pone è allora questo: come è potuto accadere che da quei bestioni – dai loro “errori”, dai loro interessi egoistici, dalle loro vio- lenze, dalle loro illusioni – si sia sviluppata la civiltà umana? Come sono nate le prime istituzioni (le religioni, le famiglie, i riti di sepoltura, e poi gli ordinamenti sociali e politici, e tutta la nostra civiltà e cultura) se i nostri antenati erano spinti solo da passioni immani ed egoistiche, e incapaci di «riflettere con mente pura»? Come è emerso il nostro raffinato linguaggio articolato a partire dai primi grugniti, dai primi bisogni, dalle credenze fan- tasticate dei primi uomini? E se l’umanità ha dovuto attraversare diversi stadi prima di giungere al nostro grado di civiltà, non c’è forse il pericolo che ricada in precedenti stadi di barbarie?

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