Il quinto libro ad edictum di Domizio Ulpiano. Una prima ricognizione

03 Monografia
Angelosanto Antonio

Una palingenesi, con traduzione italiana e relativo commento storico-giuridico, dei frammenti a noi pervenuti di anche uno soltanto degli ottantatré libri ad edictum di Domizio Ulpiano, deve muovere le proprie ricerche dalla necessità di considerare il giurista severiano – per fare uso di una pioneristica espressione proposta da Alfred Pernice – innanzitutto «come scrittore» («Ulpian als Schriftsteller»), ovverossia come l’autore, tra le altre opere, di quel poderoso commentario all’editto perpetuo che neanche il «codice» giustinianeo fu in grado di oscurare. Questo punto di vista ha il pregio di gettare luce sulle peculiarità della produzione dell’autore, da intendersi come giurista nel momento in cui scrive, al fine di imprimere, attraverso la sua opera, una definitiva direzione all’interpretazione del testo edittale. Più in generale, uno studio delle opere dei giuristi romani dovrebbe infatti emanciparsi da quel noto e diffuso pregiudizio romanistico di considerare «fungibili», quasi anonimi, tutti i giuristi romani. Per quel che concerne l’autore e l’opera oggetto della presente ricerca – il quinto libro ad edictum riservato dal giurista di Tiro al commento del titolo quinto dell’editto perpetuo dedicato alla «chiamata in tribunale» («de in ius vocando») – i cui risultati provvisoriamente raggiunti vengono in questa sede pubblicati, si ritiene necessario, in primo luogo, tendere al superamento di quell’antica abitudine della romanistica di considerare il giurista severiano come una sorta di contenitore neutro, un serbatoio quasi inesauribile di riscontri, in particolare relativi alla giurisprudenza precedente, senza cogliere l’‘originalità’ dell’autore nel momento in cui quest’ultimo si incontra con la plurisecolare ‘tradizione’ del pensiero giuridico romano.

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