La minaccia di una catastrofe nucleare sulle sorti dell¿umanità continua a perversare e a pesare sul nostro destino, sebbene non appaia più nella sua incombenza quotidiana, come negli anni del dopoguerra e della ¿guerra fredda¿. Non solo perché la questione degli armamenti nucleari delle superpotenze ¿ e non solo ¿ è all¿ordine del giorno, ma anche perché gli incidenti catastrofici legati al ¿nucleare¿ continuano a verificarsi su una terra già dilaniata e, in modo diretto o indiretto, a distruggere. Il timore dell¿esplosione della bomba atomica e del destino dell¿uomo, così come era stato pensato da molti filosofi (K. Jaspers, G. Anders, H. Jonas, M. Susman, H. Arendt e altri), si ripresenta dunque, anche se modificato. L¿angoscia degli armamenti nucleari rinasce, così come rinasce il timore di altre distruzioni causate da incidenti nelle centrali nucleari.
Dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945, in cui l¿utilizzo della bomba a fissione nucleare fu intenzionalmente distruttivo, il panorama storico, politico, sociale, culturale è radicalmente cambiato. Certo. Ma un filo rosso lega il dopoguerra all¿oggi: una matrice comune di inquietudine e un simile asse interrogativo sembrano riproporsi. Infatti, che cosa si deve pensare della catastrofe nucleare oggi, anche dopo l¿incidente di Chernobyl del 1986, quasi solo un ricordo, e dopo quello di Fukushima del 2011, molto più problematico perché provocato da un terremoto e uno tzunami contemporaneamente? In che modo ci si può interrogare filosoficamente, anche con l¿aiuto di competenze scientifiche, sulla catastrofe nucleare o su quelle situazioni catastrofiche in cui la mano dell¿uomo ha rilevanti responsabilità? Queste situazioni non costituiscono forse dei momenti storici essenziali in cui i confini tra uomo e natura, tra natura e tecnica, sono messi allo scoperto e in cui si è convocati a ripensarne radicalmente e differentemente i contenuti e i confini?