La lingua sanscrita, fissata dal grammatico Panini nel IV sec. a.C. e istituzionalmente preservata, venne configurandosi nel tempo come lingua artificialmente "rifinita" rispetto alle lingue "naturali" (prakrta), riservata alla sfera del sacro e dello spirituale. Questa prospettiva, assunta dagli orientalisti ottocenteschi in epoca coloniale, è oggi incorporata nelle teorizzazioni dei sostenitori di un'astratta identità hindu (hindutva). Con la presente ricerca ci si propone di capovolgere tale prospettiva, troppo spesso acriticamente accettata, e di indagare le connessioni del sanscrito con le lingue e letterature che si affermarono specificamente nel sud dell'India in epoca premoderna, concentrandosi sulle lingue dravidiche e sul loro impiego in contesti colti ed eminentemente letterari, e, inoltre, sulla lingua del canone buddhista pali, nata come il sanscrito in ambito religioso e usata nell'area dell'odierno Sri Lanka. A tale scopo, si intende avvalersi della metodologia del progetto franco-tedesco, finanziato dal FRAL 2018, TST (Texts Surrounding Texts), che studia il vasto materiale manoscritto raccolto nelle biblioteche di Parigi (BnF) e Amburgo (Stabi) alla luce dei "paratesti" (commenti, glosse, varianti, e interpolazioni in lingue locali) che accompagnano i testi sanscriti canonizzati. In particolare, si ritiene necessario integrare questo materiale con quanto è stato riportato a Roma dai missionari di stanza in Malabar e Tamil Nadu meridionale, i quali, fuori dai confini dell'impero Mughal, accostarono una tradizione ininterrotta di apprendimento e studio del sanscrito, e a mezzo della loro opera di copiatura e traduzione dei testi indiani contribuirono a creare un paratesto plurilingue, che testimonia della "fluidità" tra diversi contesti religiosi e letterari. Più precisamente, si intende studiare i lessici manoscritti dei missionari ponendoli a confronto con il lessico sanscrito tradizionale Amarakosa e con il suo paratesto dravidico.