Una febbrile contesa di linguaggi sul rapporto tra architettura moderna e città storica
Dopo la fine della seconda guerra mondiale l’adesione dell’architettura italiana alla modernità avviene in modo condizionato e diversificato1. Già dagli anni ’30, come si apprende dalle parole del Gruppo 72, il razionalismo era propugnato operando precise distinzioni tra razionalismo mediterraneo e razionalismo nordico, includendo casi di difficile adesione alla modernità e di adesione sospettosa. Leggendo le parole di Bruno Zevi in Italiani Contro-corrente3 si apprende che ‹‹vinsero i monumentalisti [...] come era logico nella temperie di una dittatura oscurantista […] nonostante l’energia e il “rigore morale” di esperienze come il gruppo MIAR e le proposizioni espresse da Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico nella rivista Casabella-Costruzioni dal 1932 al 1943››. Cioè vinse il piacentinismo, diremmo oggi.L’adesione alla modernità nell’architettura italiana, nel tempo, ebbe comunque una dimensione “populista”, cioè sia i committenti che i
progettisti fecero un uso politico della costruzione dell’ambiente urbano e della sue qualità rappresentative rispetto alle masse e agli utenti finali. Ciò è evidente leggendo sia la letteratura più classica e consolidata su questo tema che le più recenti analisi di studiosi non italiani ma italophilie, come direbbe Jean-Louis Cohen: ad esempio Michelangelo Sabatino4, Jean-François Lejeune, Eric Mumford5.