Leggere Gramsci, fra tradizione e futuro

02 Pubblicazione su volume
Muste' Marcello

La filologia «senza aggettivi», come si usa definirla in quanto sapere umanistico universale, è una disciplina basilare in tutte le civiltà fondate sulla scrittura, necessaria per stabilire l’integrità dei testi, la loro diffusione e alterazione, i comportamenti e le intenzioni degli autori. In una conferenza alla Columbia University del gennaio 2000 (ampliata e variamente pubblicata negli anni successivi) Edward Said ne propose un elogio persuasivo, memore della pagina sulla «filologia vivente» che Gramsci aveva scritto nel Quaderno 7 e rielaborato nel Quaderno 11. Nel caso di Gramsci la ricerca filologica acquista tuttavia un significato specifico e perfino insolito, legandosi in maniera diretta al compito dell’interpretazione e alle diverse stagioni che hanno segnato la “fortuna” di questo autore. Il motivo non è difficile da decifrare. La maggiore impresa intellettuale di Gramsci, i Quaderni del carcere, costituisce l’esempio singolare di una opera interamente postuma, scritta nelle condizioni di una dura reclusione, fra molteplici disagi di ordine fisico e psicologico, con scarse indicazioni sui tempi e modi di composizione e non destinata, come tale, alla pubblicazione. Per ragioni diverse anche gli scritti precarcerari presentano problemi filologici rilevanti, relativi alla difficoltà di stabilirne con sicurezza l’attribuzione. Per tali ragioni (e non, come a volte si è detto, per una specie di furia disgregatrice) tutte le principali edizioni gramsciane sono state guidate da ipotesi filologiche, dal tentativo di una ricostruzione dei testi sulla base di analisi sempre più credibili e fondate.

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