L'insostenibile solitudine dell'Italia davanti ai flussi incontrollati di migranti ridotti in Libia in stato di schiavitù.
Mentre sul suolo patrio andava in scena la curiosa vicenda dell’accusa alle Ong umanitarie di complicità a vario titolo con i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo, l’8 maggio 2017, nel Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a New York la Procuratrice della Corte penale internazionale prendeva la parola dinanzi al Consiglio di sicurezza per presentare il 13° rapporto sulla situazione in Libia. Senza i soliti convenevoli diplomatici e con stile diretto la Procuratrice lanciava subito l’allarme che avrebbe impensierito chiunque, ma non i navigati rappresentanti degli Stati membri del Consiglio: “allow me to observe with profound regret that the overall security situation in Libya has deteriorated significantly since my last briefing to the Council last November. Reports indicate that the country is at risk of returning to widespread conflict”. Secondo la Bensuda, tale epilogo militare determinerebbe una situazione di violazioni gravi e generalizzate dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario che avrebbe come vittima sacrificale la popolazione civile. Ai nostri fini, la Procuratrice non si è limitata a paventare il rischio di una sanguinosa deriva in Libia dall’anarchia diffusa al conflitto generalizzato, ma ha fornito una rappresentazione veritiera dell’attuale e terribile situazione in cui si trova la moltitudine dei migranti in transito nel territorio libico: “I am deeply alarmed by reports that thousands of vulnerable migrants, including women and children, are being held in detention centres across Libya in often inhumane conditions. Crimes, including killings, rapes and torture, are alleged to be commonplace” (ibidem, p. 4). Come se ciò non bastasse, la Bensouda ha anche citato fonti credibili secondo cui “Libya has become a marketplace for the trafficking of human beings”.