I modelli animali per lo studio della depressione
Il disturbo depressivo maggiore, o depressione maggiore, è una delle principali cause di disabilità nel mondo ed è caratterizzato da singoli, ricorrenti o cronici episodi di tristezza profonda, perdita della motivazione, dell’interesse e del piacere. A questi si aggiungono spesso sintomi secondari quali ansia, disturbi del sonno, perdita di peso, alterazioni cognitive e psicomotorie. Ne risulta una grande eterogeneità nella sintomatologia cui si associa un alto grado di variabilità individuale. Di origine multifattoriale, la depressione è stata associata ad alterazioni neurobiologiche di diversa natura, e questo in parte spiega l’alta percentuale di resistenza ai trattamenti antidepressivi convenzionali, principalmente atti ad aumentare la trasmissione monoaminergica (Noradrenalina, Dopamina e Serotonina).
La grande varietà di manifestazioni cliniche che la caratterizzano, nonché l’eterogeneità eziologica suggeriscono che la depressione, così come definita dal DSM-V, possa in realtà racchiudere in sé uno spettro di sottotipi che richiederebbero uno studio indipendente e degli interventi terapeutici ad hoc. In questo scenario, l’uso dei modelli animali si impone più che mai come strategia necessaria per la comprensione dei diversi meccanismi patogenetici, nonché per lo sviluppo di nuovi trattamenti terapeutici. Ciononostante, per la sua stessa natura multiforme, lo sviluppo di un modello animale univoco che riproduca in modo esaustivo tutti gli aspetti della depressione è praticamente irrealizzabile. A rendere difficoltoso il passaggio dal modello animale alla ricerca clinica, inoltre, è il fatto che la diagnosi psichiatrica ad oggi può avvalersi solo di strumenti self-reports soggetti a valutazioni soggettive dello psichiatra, piuttosto che a misure oggettive quali ad esempio dei biomarcatori, che supporterebbero la validazione del modello. Inoltre, l’applicazione dei criteri diagnostici del DSM-V nella valutazione del comportamento simil-depressivo dell’animale può essere molto problematica quando si considerano sintomi chiave del disturbo, quali ad es. l’ideazione suicidaria, o la sua natura di disturbo ricorrente che non sono osservabili nè riproducibili negli animali. Queste difficoltà hanno contribuito ad animare il dibattito sulla reale utilità dei modelli animali di depressione e sulla loro validità traslazionale, non tenendo conto del fatto che i modelli animali non sono ideati per rappresentare la condizione patologica umana nella sua interezza e complessità ma, piuttosto, a rappresentare degli aspetti specifici della depressione, che ci consentano di comprendere i meccanismi neurobiologici essenziali allo sviluppo ed all’espressione della patologia.
Un nuovo slancio all’utilizzazione del roditore per lo studio della depressione è stato dato in questo senso dall’introduzione del sistema dell’Research Domain Criteria (RDoC) nella classificazione degli stati psicopatologici.
Sviluppato dal National Institute of Mental Health, l’RDoC rappresenta un tentativo di creare un sistema di classificazione sperimentale di stati psicopatologici in una dimensione trans-nosografica, basata su evidenze scientifiche eziologiche e patofisiologiche. Questo nuovo approccio mira ad estendere la ricerca clinica oltre la mera valutazione dei sintomi soggettivi, per direzionarla verso una diagnosi basata su misure oggettive neurobiologiche e genetiche. Secondo l’RDoC, infatti, la stessa diagnosi riferita ad un gruppo di pazienti molto eterogenei viene destrutturata e categorizzata in “cluster” più omogenei sulla base di alterazioni neurobiologiche misurabili ottenute, ad esempio, mediante tecniche di imaging e neurofisiologia.
Il sistema dell’RDoC si sviluppa su una matrice bidimensionale che collega i cambiamenti neurobiologici descritti su più livelli con domini comportamentali ben definiti, rappresentati come unità indipendenti nel ge