Sin dalla fase più iniziale della sua ricerca, Romano discute la formazione dello Stato di diritto in direzione della dignità dell’uomo e degli a priori della legalità, ravvisati nella qualità relazionale della comunicazione discorsiva e non in un astrattismo logico-formale, che conduce all’emersione della Grundnorm, criticata nelle sue modalità formalistiche (Due studi su forma e purezza del diritto, 2008).
Ne consegue un’articolazione della filosofia del diritto su piani distinti ed essenziali – il riconoscimento come relazione giuridica fondamentale, la ‘differenza nomologica’, il radicamento del nomos nel logos, la terzietà del diritto strutturata come trialità della parola, il rispetto dei diritti dell’io – unificati dalla destinazione del diritto all’humanitas che Romano denomina, di volta in volta, io, individuo, persona, soggetto dialogico, alla ricerca costante di un nomen che dia piena significanza alle possibilità esistenziali della condizione umana.
Gli interessi speculativi di Romano non si limitano ad una descrizione funzionale del diritto o ad una sua delineazione come costruzione teorica avulsa dai destinatari delle norme; la critica al formalismo giuridico si avvia proprio dalla difficoltà di considerare il diritto generato da una Grundnorm, ambigua nella sua determinazione iniziale, come discute in Ricerca pura e ricerca applicata nella formazione del giurista del 2008, perché, proprio nella sostanziale riflessione sul senso esistenziale del diritto, si richiama il giurista alle sue responsabilità, il filosofo del diritto a non essere preso da un ‘diritto puro’, estraneo alle urgenze storiche dell’uomo reale (Male ed ingiusto. Riflessioni con Luhmann e Boncinelli, 2008).
Il giudizio nei confronti della società, intesa come ‘convenzione funzionale’, indifferente all’incidenza delle istituzioni giuridiche sulla costruzione dello Stato di diritto, diventa un giudizio critico e negativo quando la nuda realtà si impone con la sua forza dominante, oggi ‘finanziaria’, al legislatore, al giudice, etc.
Il ‘diritto dei deboli non è un debole diritto’ – scrive Romano – portando la sua riflessione a misurarsi con la ricchezza della lectio del pensiero ‘essenziale’ della modernità, sino ad arrivare ad affermare che la società attuale rischia di concretizzare un nichilismo negatore degli ideali dei soggetti (Diritti dell’uomo e diritti fondamentali, 2009), assecondando operazioni fattuali dirette ad un mero funzionamento bio-mercantile che riafferma la superiorità del nihil, di un funzionamento amorfo, uniforme, macchinico dei sistemi sociali, secondo un modello di soggetto anti umano, poiché post-umano, vale a dire, al di là del concetto classico di humanitas.
Nello strutturare il tessuto concettuale che tiene insieme il logos e il nomos, Romano argomenta la sua critica alla ‘volontà di potenza’, alla violenza mascherata dalle mistificazioni, asservite al dominio ed all’assolutizzazione dell’avere; in questa prospettiva, la giustizia è negativamente declinata come giustificazione ed incide sulla qualità del coesistere, qualificato dalla consacrazione vincente di modelli giuridici strumentali, fuorviando, ad esempio, l’attenzione dai diritti dell’uomo verso una robotica intelligente, macchinale e post-umana.
L’essenza costitutiva dell’uomo si esplicita in Romano ogni volta nell’opera dell’interpretazione, paradigmaticamente gratuita e donativa, che orienta la terzietà del legislatore, del giudice, etc., in generale del giurista, verso il giusto o l’ingiusto, nella costante illuminazione della ‘differenza nomologica’, che separa e connette le norme ed il diritto, l’istituzione di un ordinamento e la ricerca del giusto (Dono del senso e commercio dell’utile. Relazioni e regole, 2011)
Nella tensione verso un progresso scientifico illuminato, accessibile anche ai più deboli, a coloro che vivono nell’economia reale, a volte ignari di alimentare l’élite finanziaria, Romano si interroga su quale sarà, in una situazione globale in formazione, la condizione umana, determinata da ‘punti di vista’, indifferenti ai diritti dell’uomo, universali ed incondizionati. Si chiede a chi verrà attribuita la responsabilità di pronunciarsi su norme legali, ma ingiuste, simboli annichilenti nella compiuta vacuità. La risposta auspicata è nell’impegno di quella figura di giurista che non si piega ad usare il diritto come strumento controgiuridico: contro i deboli, contro un genere, contro le minoranze, contro gli apolidi … a favore di una élite che nella storia assume forme diverse e che oggi produce la ‘dittatura finanziaria’ (Nichilismo giuridico e nichilismo finanziario, 2012).
Se nel ‘fondamentalismo funzionale’ i diritti umani sono presentati e spiegati come prodotti ‘decisi’ dal mercato, a questo esito l’uomo cerca di resistere ricostituendo la qualità giuridica ed esistenziale della relazione con l’altro, nell’istituzione di una legalità che custodisca il nucleo dei diritti dell’uomo.
Vi sono almeno tre dimensioni esistenziali non disponibili, secondo Romano: la parola, la ricerca del giusto, la libertà condivisa. L’uomo si trova ‘esposto alla libertà’, così come si trova già in un ‘discorso’ (società), egli stesso portatore di parola; allo stesso modo, si può dire che è nella libertà anche quando la vanifica, protendendo verso un nichilismo che coinvolge le strutture della giuridicità. L’uomo istituisce le norme, ma non crea il desiderio di giustizia, espresso nel perseguimento del bene comune; dunque non può creare la differenza tra il giusto e l’ingiusto, può limitarsi a perseguirla (Forma del senso. Legalità e giustizia, 2012).
Questo argomento lo porta ad affermare che, quando l’uomo cancella la distinzione tra giusto e ingiusto, l’unica dimensione residuale è il legalismo fattuale, che si impone attraverso una selezione formale della ‘forza del più forte’. La storia del diritto mostra che la legalità può ratificare la forma dominante, senza una ragione esistenziale, ma è anche evidente che l’attuale dimensione della globalizzazione rievoca costantemente l’alterità anche attraverso i mezzi informatici: forza, violenza, esclusione, possono essere denunciati in tempo reale da qualunque parte del pianeta.
Marcatura essenziale dei contributi di Romano è la prospettiva interpersonale; qui la parola manifesta la sua incidenza: nessun uomo è così spento da rinunciare a priori al libero esercizio della parola propria, non cede ad altri di sostituirsi al suo dire, non lascia che le parole altrui siano le sue, a meno che non lo scelga. Nessuno può totalizzare se stesso, la libertà, l’interpretazione; nessuno può asservire completamente l’altro che si sottrae sempre attraverso la libertà del pensiero divergente; nessuno può dominare la pluralità dialogica che si presenta in maniera peculiare proprio nel momento più alto del giuridico: il dibattimento nel processo (Giudizio giuridico e giudizio estetico. Da Kant verso Schiller, 2013).
La fiducia di Romano nell’uomo e nelle possibilità del diritto è senza sosta affermata nella ripresa dell’itinerario dei suoi maestri e dei classici della filosofia: il pensiero è la presenza dell’uomo nell’esercizio della sua libertà, diretta a dare significatività ai ‘concetti fondamentali’ della scienza del diritto, che non possono diventare i valori assoluti, prioritari nell’affermazione di una meccanica fisiologia del diritto. Oscurando il legame tra logos e nomos, si sviluppa una dimensione normativa che ratifica il dominio della forza e del funzionamento propri dei rapporti escludenti; così si cancella la ‘differenza nomologica’, l’unità-scissione tra l’istituzione delle norme e l’illuminazione del senso esistenziale del diritto.
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