Com'è bella la città

02 Pubblicazione su volume
Toppetti Fabrizio

A cinquant’anni suonati dalla prima edizione del libro di Lefebvre, è difficile conferire sostanza (non solo di cose sperate) a un diritto (il diritto alla città) che da un lato ci appare scontato, dall’altro continua a sfuggirci perché domanda contenuti sempre nuovi, al passo con i tempi. E d’altra parte quella distanza che si avvertiva allora si è sensibilmente ridotta: la dimensione urbana, che è pervasiva e totalizzante ci raggiunge ovunque relativizzando le differenze, in primo luogo il plusvalore della città come fenomeno fisicamente definito. L’attenzione si è spostata da un lato sul tema della riconquista di una dignità dell’abitare e dall’altro su un welfare che non è in grado di rispondere creativamente ai bisogni delle persone, questioni che, unite all’emergenza ecologica, ai flussi migratori, alla povertà costituiscono lo sfondo del nostro agire, riportando l’attenzione sulla qualità degli spazi della vita quotidiana. Con la crisi delle ideologie produttivistiche legate alla crescita e all’efficienza economica, dalla fine degli anni sessanta, hanno perso peso, evidentemente in termini relativi e non assoluti, gli indicatori di ordine materiale con i quali tradizionalmente si misurava il benessere. Questo fenomeno in prima istanza è legato al fatto che dei tre livelli fondamentali dei bisogni umani – materiali, sociali, egocentrati – il primo, quello più pressante, per la grande maggioranza degli individui si poteva dare come soddisfatto, e questo è l’aspetto che ha l’incidenza più rilevante. Vi è poi un secondo fatto, solo apparentemente in contraddizione con il primo, che è legato, soprattutto negli ultimi anni, alla percezione sempre più diffusa di una condizione di crisi strutturale che, per coloro che non sono alla fame, ha contribuito a relativizzare la necessità di affermazione legata al possesso.

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