Valutatemi! Il fascino discreto della meritocrazia

03 Monografia
Gavrila Mihaela

Quando la valutazione si trasforma nel dogma
evangelico dei modernizzatori e dei meritocrati, quando arriva
a incarnare una visione del mondo da magnifiche sorti e
progressive e a caricarsi di un sistema di valori e di aspettative
presentato come salvifico e palingenetico, quando per suo tramite
si cerca di fare in modo che la ricerca dell’efficienza arrivi
a plasmare addirittura la soggettività degli individui (emblematica
a riguardo la nota affermazione di Margaret Thatcher:
«Economics are the method, the object is to change the soul»),
quando insomma la valutazione degenera in una vera e propria
escatologia, allora non ci può essere reazione più istintiva
e comprensibile di una dissacrante scatologia.
Ma se questo è vero, se cioè le pratiche di valutazione applicate
a servizi pubblici strategici come la formazione e la sanità
sono diventate ormai parte del problema (la scarsa qualità,
vera o presunta che sia, di tali servizi) di cui si immaginava
che fossero la panacea, allora cui prodest? Perché si continua
disinvoltamente ad esercitarle, anzi man mano che se ne manifestano
le criticità e gli effetti perversi si cerca sempre più di
consolidarne l’uso, affinarne i metodi, estenderne la portata
e accrescere ulteriormente la funzione decisionale che hanno
finito per acquisire all’interno delle organizzazioni? Che cosa
c’è dietro l’idea che, come si continua a ripetere in modo irriflesso,
una cattiva valutazione (cioè qualcosa di arbitrario,
costoso, fallace e fuorviante) sarebbe comunque meglio di
nessuna valutazione? A questa domanda che ormai sempre più persone si fanno
e che come cittadini, oltre che come studiosi, non ci possiamo più permettere il lusso (o la distrazione) di lasciare inevasa,
cerca di fornire una plausibile risposta con questo libro la psicanalista
Bénédicte Vidaillet, studiosa di problemi della soggettività
sul lavoro. Lo fa attraverso una mossa inaspettata che
capovolge la prospettiva con cui generalmente si affronta la
questione: non sono gli altri che ci impongono la valutazione
ma siamo noi che in fondo desideriamo sottoporci ad essa. In
questo senso si potrebbe dire (parafrasando la nota battuta di
Giorgio Gaber su Berlusconi) che, più che la valutazione in
sé, ciò che dovremmo temere e tenere d’occhio è piuttosto il
bisogno di valutazione che è in noi. Per quanto consapevoli
degli effetti negativi che essa produce sulla qualità del lavoro
e sul benessere dei lavoratori (effetti largamente documentati
in questo libro), non riusciamo tuttavia a resistere «alle sirene
della valutazione», perché la narrazione che proviene dal loro
canto tocca corde assai sensibili e profonde in noi. Ci promette
niente di meno che un mondo rischiarato dall’opacità e
senza margini di incertezza. Ci assicura un punto di vista che,
pur radicato nella contingenza del mondo e nelle sabbie mobili
ma ineludibili dell’interpretazione, si presenta in un certo
momento (e solo per quel momento) come il punto di vista
assoluto e ufficiale sul mondo, definitivo almeno fino al prossimo
esercizio di valutazione. Proclama che non ci sono interpretazioni
ma solo fatti oggettivamente accertabili e sintetizzabili
in misure quantitative. Si impegna a liberarci da quello
che considera il “maleficio” del dubbio, e a depurare il mondo
da ogni privilegio e pregiudizio. Pretende di rivelare il reale
nella sua verità integrale e di consegnarlo nudo e crudo dinanzi
a uno sguardo oggettivo e chirurgico, ma dimentica che
ogni ri-velazione non fa che mettere fatalmente un altro velo
(“ri-vela”, appunto) a ciò che vorrebbe rischiarare. Ci seduce
facendo leva sul nostro intrinseco desiderio di riconoscimento
o sulle nostre insicurezze e frustrazioni, come pure sul senso di
ingiustizia di cui a ognuno con ogni probabilità sarà capitato
almeno una volta prima o poi di credere, a torto o a ragione

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