Inevitabili cliché? La presbiopia morale dei pubblicitari italiani nella produzione delle immagini di genere
Gli studi sociologici sulla pubblicità sono concentrati su tre direttrici principali (Kawashima 2006). l’analisi testuale e socio-semiotica dei messaggi pubblicitari (Floch 1992; Semprini 2006; Volli 2003); l’analisi della pubblicità come forma di comunicazione, in grado di rispecchiare le tendenze sociali e promuovere costumi, gusti, mode che pervadono la cultura pubblica (Jones 1999; Testa 2007; Sassatelli 2010; Wernick 1991); l’analisi del ruolo della pubblicità nello sviluppo della cultura commerciale e consumistica (Arvidsson 2006; Ewen 1998; Featherstone 1991; Jhally 1990; Sassatelli 2004). Non sono mol¬te, invece, le ricerche (Nixon 2003; Mazzarella 2005; Moeran 2009; Ariztia 2013) che indagano il processo di creazione del messaggio pubblicitario a partire dai protagonisti coinvolti e delle loro percezioni e condotte.
Inoltre, i pochi studi che in Italia hanno considerato la produzione dell’advertising hanno privilegiato la dimensione creativa rispetto a quella strategica e hanno utilizzato prevalentemente metodologie etnografiche (Pozzi 2014), limitando l’attenzione a singoli casi di studio.
Oltretutto, nonostante una critica persistente e diffusa sul trattamento del genere in pubblicità (Kilbourne, 1999), pochi studiosi nel contesto internazionale hanno focalizzato l’attenzione sui processi produttivi alla base dei ritratti pubblicitari di genere (Tuncay Zayer, Coleman, 2014) e nessuno lo ha mai fatto in Italia.
Per questo, si è deciso di analizzare la produzione delle immagini pubblicitarie di genere, per comprendere in che modo i pubblicitari percepiscono e contribuiscono a costruire, all’interno delle loro routine professionali, le rappresentazioni di maschilità e femminilità che popolano annunci, spot e affissioni.
In particolare, si è andati alla ricerca dell’origine di certe rappresentazioni, dei soggetti promotori di specifiche immagini di donne o uomini, delle prassi culturali e professionali che guidano la creazione dei diversi ritratti di genere, delle percezioni del possibile impatto sulle audience e delle eventuali responsabilità, nel caso delle distorsioni più evidenti.
L’ipotesi è che, a differenza di altre forme di comunicazione, il peso degli obiettivi di marketing e le caratteristiche strutturali della pubblicità (la brevità, l’ampio utilizzo di immagini iconiche, il diffuso ricorso ai media di massa) limitino la possibilità di innovazione e sperimentazione nella rappresentazione del genere.
Per questo, si è scelto di confrontare il punto di vista di creativi e pubblicitari in ruoli strategici, ipotizzando una maggiore frustrazione e autocritica per i creativi e una sorta di autoassoluzione degli “strategici”, in virtù della necessità di rispettare le richieste del cliente e gli obiettivi di marketing.
Si è immaginato anche che ci fosse una percezione del “lettore modello” dell’advertising italiana piuttosto rigida e antiquata, tesa, nella maggior parte dei casi, alla generalizzazione e al mainstream.
Per verificare le ipotesi sono state realizzate quaranta interviste in profondità a pubblicitari in ruoli dirigenziali che lavorano in agenzie nazionali e internazionali di diverse dimensioni, con sede in Italia, dividendo equamente il gruppo di testimoni privilegiati per genere e ruoli professionali (venti donne e venti uomini, venti professionisti in ruoli creativi e venti in ruoli strategici).
L’analisi ha rivelato l’esistenza di schemi cognitivi ricorrenti e processi produttivi condivisi. In particolare, gli intervistati riconoscono la rigidità, la povertà e la bassa qualità delle immagini di genere della pubblicità italiana e sono piuttosto critici nei loro confronti. Al tempo stesso, però, credono che i limiti riconosciuti siano in larga misura inevitabili, per questioni tecniche (il limitato tempo a disposizione, la necessità di utilizzare immagini facilmente comprensibili, il riferiment