La cura tra simpatia, immaginazione e umiltà
Nel quadro di una lettura sentimentalista dell’etica della cura (da quella di A. Baier a quella di M. Slote), lettura che insiste sulla natura sentimentale e riflessiva della morale e indica nella simpatia e nell’immaginazione i pilastri del sentimento morale, ma anche a partire da alcune riflessioni sviluppate nella recente letteratura femminista e post-femminista riguardo alla difficoltà di dare conto di sé e degli altri (come ad es. in J. Butler), di vedere i bisogni propri e altrui (o di avere una voce per esprimerli), riflessioni di cui trovo una eco nella produzione recente di C. Gilligan (ad es. in La virtù della resistenza), nell’intervento vorrei provare a dar conto di alcune riflessioni critiche e ad articolare alcune linee di sviluppo nella formulazione di un’etica della cura. In particolare, pur mantenendo un riferimento forte a simpatia e immaginazione, vorrei provare a interrogarmi intorno al tipo di lavoro che l’immaginazione svolge e a indicare il ruolo positivo svolto da un’ulteriore istanza che proverò a caratterizzare nei termini della consapevolezza dei limiti del proprio immaginare o sentire, di un senso del limite o di un’istanza critica. Un’istanza che non va necessariamente pensata come il frutto di un intervento della ragione o dell’intelletto, ma che può essere invece considerata come il frutto di esperienze concrete, anche nei termini dello straniamento o del sentimento di umiltà che esse generano. Infine, un modo diverso di presentare questo stesso tentativo di articolazione, come cercherò di mostrare, è quello di interrogarsi intorno alla natura femminile o femminista della cura.