Postcritica. Asignificanza, materia, affetti
Scrivere un libro contro la critica non avrebbe alcuna importanza, perché solo importa ciò che crea concetti capaci di tracciare nuove linee. Queste pagine segnano invece il primo gesto postcritico della postcritica, ovvero la rivendicazione del “post”: essa reagisce all’inflazione di un suffisso con un esercizio deflattivo. E se la deflazione è la diminuzione del livello generale dei prezzi, la postcritica svaluta sé stessa senza clamore. Essa guarda infatti al minuto, all’interstizio, ai legami che intessono la trama della vita ordinaria, e rifiuta la “proiezione strutturale” delle teorie generali. Ma non è certo una propensione all’agone con la più lasonata delle creature filosofiche, la critica, che fa caricare la postcritica di un suffisso così compromettente. Il “post” non evoca un prima e un dopo, né calca il congedo da una genitrice indesiderata; è piuttosto un “segno”, un “cenno”, un “signpost”, che richiama l’attenzione sul “dove si sta”. Siamo in un mondo che certo non abbisogna dell’addio alla critica, ma che alla critica richiede di fermarsi un istante, di accorciare le distanze tra teoria e pratica, di collocarsi sulla superficie dove le cose accadono e si compongono. La postcritica di cui questo libro parla vuole inaugurare un maggese del pensiero filosofico, fatto di contaminazioni disciplinari con l’antropologia, la sociologia, la letteratura, la fisica, la botanica e tante altre, che possano indicare alla filosofia, plenipotenziaria della teoresi, come ascoltare, leccare, odorare e toccare.