Il riscatto della città pubblica tra concentrazione e distanziamento

04 Pubblicazione in atti di convegno
Reale Luca
ISSN: 2239-4222

Oltre a generare dubbi e riflessioni sul modello economico globale del neoliberalismo, la pandemia che si è diffusa a scala mondiale all’inizio del 2020 ha improvvisamente minato alcune certezze relative al futuro delle metropoli, convinzioni che negli ultimi decenni si erano andate consolidando. In particolare ci riferiamo a quei valori di densificazione e mixitè che prevedevano che le città tendessero il più possibile alla compattezza e all’alta densità, che attività e servizi fossero diversificati e adeguatamente integrati tra loro, che le persone, in una feconda combinazione di prossimità (e promiscuità), potessero muoversi liberamente nelle città e nel mondo. L’orizzonte della concentrazione umana, in nome del contenimento del consumo di suolo e della minore impronta ecologica, sembrava ormai essere l’unica prospettiva possibile verso cui potessero tendere città più efficienti e sostenibili.
Nella condizione del lockdown, al contrario, le parole d’ordine della modernità, che da più di mezzo secolo erano state messe sempre più in discussione da generazioni di architetti e urbanisti, tornano quasi beffardamente attuali. I principi costitutivi fondamentali delle città figlie della Carta d’Atene - specializzazione degli spazi, separazione dei flussi, suddivisione delle funzioni, distanza tra corpi edilizi, distacco della casa dalla strada, ecc. – si ripropongono ora sotto forma di isolamento, distanziamento fisico, controllo sociale e tracciamento degli spostamenti. Da un lato sembra quasi che l’ideologia igienista di matrice ottocentesca possa nuovamente rappresentare un modello per risanare le città, fondato sul binomio di controllo e salute pubblica. Dall’altro, l’attuale congiuntura sanitaria riporta in primo piano le potenzialità intrinseche delle aree più marginali delle nostre città e in particolare dei quartieri di edilizia residenziale pubblica. Il surplus di standard e di spazio che questi luoghi possiedono non può che farci immaginare un uso dello spazio aperto più diversificato e innovativo, attraverso il ripensamento e la riconfigurazione di sedi stradali, marciapiedi, distacchi e spazi di transizione tra quartiere e città. Si ha l’impressione che lo spazio aperto della città pubblica possa al tempo stesso aumentarne la qualità, la capacità “strutturante” e la vitalità urbana nella situazione di “normalità”, e diventare una risorsa unica - perché condivisa da una comunità ristretta e controllata - in caso di nuove misure restrittive di reazione a futuri contagi. Uno spazio di libertà controllata, ma pur sempre di libertà. Diventano allora preziosi, come si è già visto durante il periodo di lockdown, tutti gli spazi comuni co-gestiti dagli abitanti: i locali e le terrazze condominiali, i coworking “di vicinato”, gli spazi esterni di pertinenza dell’alloggio. La rigenerazione dei quartieri di edilizia residenziale passerà dunque non solo per il ripensamento dello spazio pubblico e dell’abitare privato (maggior flessibilità e separabilità degli spazi, efficienza tecnologica e delle reti, tutela della privacy e della dimensione individuale), ma soprattutto per la qualificazione e la sperimentazione progettuale di tutti gli spazi intermedi tra la dimensione pubblica e urbana e quella privata e domestica.

© Università degli Studi di Roma "La Sapienza" - Piazzale Aldo Moro 5, 00185 Roma