Le sfide delle tecnologie digitali alla sociologia visuale
La sociologia visuale si è imposta negli ultimi cinque decenni, a partire
dalle esperienze condotte negli anni Sessanta negli Stati Uniti da ricercatori
quali Howard Becker (1974) e Douglas Harper (2012) quale un vero e proprio
metodo conoscitivo della ricerca sociale che può fornire alla scienza
sociologica rappresentazioni esaustive – perché complete in termini di contenuto
e forma – di qualsiasi fenomeno sociale. Il successivo contributo alla
sua formalizzazione, specie in Italia offerto da Mattioli e Faccioli, ha definito
le modalità di applicazione, fra l’altro distinguendo fra una sociologia
visuale che opera con metodo quantitativo e qualitativo sulle immagini
prodotte per altro scopo al fine di analizzare un determinato oggetto di ricerca
e quella che opera con le immagini appositamente realizzate per studiarlo
attraverso lo strumento visuale.
Sia il metodo che, ancor prima, la determinazione delle ipotesi della ricerca
e, successivamente, le modalità di disseminazione dei risultati a livello
scientifico, ma anche a un pubblico più vasto, sono stati rapidamente rivisitati
con il crescente e massiccio uso dei dati digitali. Fra le analisi di interesse
in tal senso si possono citare e verificare gli studi di Deborah Lupton
degli ultimi anni (ad esempio, 2015) relativamente ai processi indotti da queste
trasformazioni: la definizione degli “oggetti composti di dati digitali”, la
loro generazione indiretta per gli usi scientifici, oltre che costante e continua,
la progressiva necessità di accedere e utilizzare strumenti digitali per poterli
raccogliere, trattare e interpretare, l’ampliamento dei soggetti che possono
operare in modo analogo nell’uso di questi dati e, al contempo, la restrizione
del numero dei sociologi che sono davvero in grado di applicare conoscenze
informatiche a questi specifici usi.