«La lingua è più del sangue»: è questa l'epigrafe che apre «LTI. La lingua del Terzo Reich», in cui il filologo V. Klemperer annota, giorno dopo giorno, come il nazismo progressivamente si appropriò, inquinò e infettò la lingua tedesca. Ma il processo innescato non terminò con la caduta del regime, perché da linguistico era divenuto ermeneutico, culturale, identitario, per cui estirpare quel germe significò non solo abbandonare «l'agire nazista, ma anche il pensare nazista», e cioè diserbare «il suo terreno di coltura, la lingua del nazismo». In Italia la situazione non fu diversa: la maggiore durata temporale del regime e la fascinazione emotiva che la retorica del Duce esercitava sulle masse resero capillare l'occupazione fascista della lingua.
Il progetto di ricerca, che si situa al bivio tra letteratura, storia, linguistica e glottodidattica, mira a connettere gli studi (esistenti, ma decisamente minori a quelli di ambito tedesco) sulla lingua, la retorica e la pedagogia del regime fascista, inquadrandoli nel rapporto di continuità/innovatività rispetto al Risorgimento, all'epoca liberale e alle avanguardie, al fine di mettere a fuoco cosa significò e come si attuò, per la generazione letteraria che nacque all'indomani della Marcia su Roma e che partecipò alla Resistenza, il tentativo di «tirare il collo alla retorica» (Meneghello): il tentativo, cioè, di estirpare da se stessi la lingua e la cadenza interiore che aveva cementato l'identità individuale e collettiva - perché in quella retorica si era stati cresciuti e formati durante l'educazione scolastica, politica e religiosa -. Meneghello, Fenoglio, Calvino, Pasolini sono tutti autori nati negli anni Venti, che in modo differente tentarono di «strapparsi di dosso il fascismo» (Starnone) fin nelle sue più profonde radici linguistiche, restituendo la lingua italiana a una dignità civile (prima che letteraria) su cui impiantare una possibile rinascita culturale, identitaria e politica nazionale.