L’azione pubblica e la valorizzazione del protagonismo sociale
Nel passato l’approccio territorialista ha sviluppato una critica alla pianificazione intesa come mera strumentazione disegnata su carta e su mappe, caratterizzata da rigidità, incapace spesso di cogliere i processi socio-economici e di trasformazione urbana e territoriale reali o di raccogliere le sollecitazioni che provengono dalle dinamiche sociali e dagli abitanti, come tali o organizzati in associazioni e comitati. Le elaborazioni sul “progetto di territorio” hanno teso a superare questi limiti e a prospettare processi e progettualità molto più ricche ed articolate, e radicate nei territori e nelle società locali.
I limiti della pianificazione si sono mostrati più forti nei contesti urbani dove non è stata in grado, se non nei casi virtuosi e difficilmente nelle grandi aree metropolitane, di arginare la rendita e gli interessi economici. La stagione dell’“urbanistica negoziata” ha anzi aperto all’azione meno controllata del capitale privato, creando inevitabilmente più occasioni di carattere speculativo.
Oggi, quindi, è reclamato anche dalle voci più critiche un recupero della pianificazione, sia come argine alle forme speculative, sia come necessità di rispondere alle esigenze sociali emergenti, sia con l’obiettivo di ridare senso all’azione pubblica e ad una dimensione di programmazione. Si tratta di un recupero della pianificazione in forma più aperta e articolata, come processo complesso in grado di coinvolgere tutti gli attori (compresi gli abitanti) e di ricostruire una dimensione di “interesse pubblico”.
La dimensione della partecipazione è stata sollecitata nel passato come modalità di superamento di molti limiti della pianificazione e di coinvolgimento dei vari soggetti sociali in processi decisionali più inclusivi e coinvolgenti. La lunga stagione della partecipazione (soprattutto negli anni ’90, dopo la “stagione dei sindaci”, fino a tutti i primi anni 2000), pur dando vita a tante esperienze interessanti, si è rivelata – soprattutto nelle grandi aree urbane – deludente e ha disatteso le aspettative, lasciando molta frustrazione e aumentando la sfiducia nelle amministrazioni. Nel tempo, non solo gli abitanti hanno progressivamente con sospetto le ambiguità delle proposte di processi partecipativi, ma davanti all’inefficienza delle amministrazioni hanno dato vita a molte esperienze di autogestione ed autorganizzazione, sia nella gestione delle aree aperte e degli spazi verdi, sia nella risposta al problema abitativo, sia nell’attivazione di servizi ed attrezzature a livello locale, spesso sviluppando politiche che in realtà sarebbero proprie dell’amministrazione pubblica (consumo di suolo zero, recupero aree ed edifici dismessi, ecc.). Le forme di autorganizzazione rispondono ad un’esigenza di riappropriazione dei luoghi, ma allo stesso tempo rischiano di essere sostitutive della pubblica amministrazione. In questo senso sono portatrici di ambiguità da guardare con attenzione. D’altronde sollevano una riflessione sui limiti oggi del soggetto pubblico.
Il contributo intende evidenziare l’importanza e l’utilità del lavoro sul campo e direttamente con i soggetti coinvolti nella riqualificazione urbana (e sarebbe opportuno sviluppare una riflessione critica sulla stessa dizione di “rigenerazione urbana”, usata così frequentemente), con particolare attenzione ai contesti urbani in cui è stato sviluppato. Tale approccio permette di cogliere la complessità dei problemi e il punto di vista dell’abitare, permette di valorizzare (all’interno di una cornice critica rispetto al modello di sviluppo e alle “idee di città”) il protagonismo sociale, le azioni e le progettualità condivise che emergono sui territori, permette di creare contesti di maggiore coinvolgimento dei soggetti sociali, anche all’interno di dinamiche conflittuali (e persino antagoniste), ma costruttive.
A partire dalle esperienze sviluppate, soprat