Il latino allo specchio. Cultura e scuola in alcune satire italiane del Settecento
Il diritto di cittadinanza che il mondo della scuola ha nella satira è probabilmente tanto antico quanto la satira. Essendo la scuola del tardo Seicento e del Settecento quasi interamente basata sul latino, ed essendo la satira di questo periodo un genere ancora significativamente latino, non stupisce che la satira diventi a più riprese uno spazio in cui il latino sembra riflettere su se stesso, ovvero sui fondamenti del proprio impero linguistico e culturale. Comincerò dalla fine, chiamando in causa un personaggio che ha quattro quarti di nobiltà scientifica e didattica. Essendo nato nel e morto nel , Stefano Antonio Morcelli è uno dei non molti gesuiti che riuscirono a vivere la soppressione dell’ordine nel e la rifondazione nel . Nella prima metà degli anni ottanta pubblicò le sue grandi opere epigrafiche, ovvero i tre libri De stilo inscriptionum Latinarum () e le Inscriptiones commentariis subiectis (). Nel proemio della prima, indirizzato cultoribus antiquitatis, si era detto sicuro che i suoi lettori avrebbero ritenuto giusta la scelta di scrivere di epigrafi latine in latino, in primo luogo perché l’uso della lingua volgare avrebbe a poco a poco portato ad uno svilimento della scienza epigrafica, che sarebbe stata spogliata del proprio fascino arcano, in secondo luogo perché così anche i non latinisti avrebbero capito che per scrivere epigrafi latine sarebbe stato necessario diventare antiquitatis cultores, o almeno dotarsi degli strumenti di costoro. In realtà lo spazio che Morcelli prevedeva per la lingua vernacola nell’ambito della sua disciplina d’elezione era semplicemente nullo...