“L’informazione come scandalo”. Dall’iperrealtà dell’industria dell’informazione alle fake news del sistema mediale ibrido.

04 Pubblicazione in atti di convegno
Binotto Marco

Nel 1992 Jean Baudrillard riferendosi all’ultimo degli innumerevoli casi di falsi e bufale diffuse nel corso della storia del giornalismo moderno che quella «sorta di indignazione morale» non aveva solo sollevato il problema dello scandalo della “disinformazione” quanto piuttosto dell’informazione stessa in quanto scandalo. L’odierna indignazione per l’irruzione delle fake news, la diffusione di “post-verità”, nel mediascape quasi fino ad influire sulla campagna presidenziale negli Stati Uniti non è che l’ennesimo momento di sdegno per gli errori e gli svarioni dei media come congegno produttore di fatti. Naturalmente, come in passato, diviene facile identificare e circoscrivere il problema, o meglio il colpevole, che questo sia un genere, un attore o un nuova tecnologia.
Forse, ripercorrendo la traccia del sociologo francese, possiamo mettere in dubbio questa interpretazione. Un articolo realizzato delle aziende costruttrici di informazioni è, come sappiamo, costruito e ricostruito da una lunga e intricata filiera produttiva. L’insieme di procedure industriali definiscono i ruoli, le scelte, il formato. Niente a che vedere con la realtà, con la notizia. Ogni fatto scompare dietro questa elaborazione infinita di attualità, tanto da apparire iperreale, simulazione concreta del reale. Nelle parole di Baudrillard: «La simulazione è proprio questo susseguirsi irresistibile, questo scatenarsi delle cose come se avessero un senso». Le espressioni di Jean Baudrillard sono sempre oscure. Paradossali. Il suo stile apodittico sovente gli dona forza e fascino, ma ne rende oscuri i concetti. L’iperrealtà è uno di questi. I meccanismi dell’industria dell’informazione producono realtà: non vi sono dubbi. Contribuiscono alla costruzione sociale della realtà eppure le ironiche conseguenze non tardano a manifestarsi. Le analisi critiche incentrate sul lavoro giornalistico mettono in evidenza da anni le débâcle delle procedure professionali e deontologiche di onestà e obiettività. Il diffondersi di «falsi giornalistici» e leggende metropolitane, di «pseudo-eventi» e «news management» mette a nudo le difficoltà di una professione sempre più sommersa dalle informazioni. Le tecnologie digitali pare non abbiano fatto altro che rendere ancor più evidente questo volto scandaloso dell’informazione, il modello di «terzo ordine» dei simulacri illustrato già nella metà degli anni 70: la proliferazione «indeterminata» e «aleatoria» dei segni. I segni-notizia diventano sempre più la materia prima del capitalismo informazionale della network society mentre la loro produzione e riproduzione è assicurata da migliaia di operatori professionali o broker dilettanti.
La soluzione paradossale suggerita per anni da Baudrillard non rimanda però ad un ritorno alla referenzialità del reale o alla “saggezza delle folle”. Piccole start-up investono nella diffusione di notizie più-reali-del-vero pronte a creare engagement e ricevere click e introiti, gruppi di cultural jammer costruiscono personalità e reazioni fittizie per ironizzare sulle narrazioni circolanti nel nuovo sistema ibrido dei media. L’autocomunicazione di massa pare non produrre citizen journalism, ma mina la stessa credibilità di ogni evento tanto da «non poter guardare in buona fede» l’informazione social oggi come la televisione nel 1992. Allora l’intera mediasfera può davvero diventare un «test di intelligenza permanente» producendo solo disillusione: l’«indifferenza, la distanza, lo scetticismo, l’apatia senza condizioni». Dopo lo scandalo c’è l’informazione come catastrofe.

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