Un pensiero della traduzione da inventare. Con Benjamin, Levinas e Derrida

01 Pubblicazione su rivista
Ombrosi Orietta
ISSN: 2279-9303

In questo testo si vuole pensare, o provare a pensare, una «filosofia ebraica» a partire dall’idea di traduzione o, se si preferisce, a partire dall’idea di un «pensiero della traduzione da inventare», secondo una formulazione di Jacques Derrida in Addio. A Emmanuel Levinas. Infatti, questi filosofi contemporanei, per i quali certo si può ascrivere una qualche familiarità, se non una reale fonte di ispirazione, con la tradizione ebraica, sebbene nelle loro diverse prospettive, a volte esplicite o solo allusive, hanno pensato il ruolo centrale della traduzione in ambito filosofico e, forse anche in relazione a quelle stesse “frange” della tradizione ebraica. Sia essa intesa come tensione delle lingue storiche verso la «pura lingua» o la lingua adamitica (Benjamin), sia come «tentazione delle tentazioni» o il rischio dell’universale (Levinas), sia come l’essenza della filosofia che tocca e ingloba l’altro che è ai margini della filosofia stessa oppure sia essa paragonabile alla politica nella sua inventabilità stessa, la traduzione è descritta da questi filosofi come un’opera essenzialmente filosofica e ma anche in tensione con le fonti ebraico-bibliche. Ma, nei tre casi proposti, non si tratta mai di un’analisi vera e propria, quanto piuttosto di un’ipotesi tutta da sviluppare e da «inventare» appunto, e che volentieri l’interprete che qui legge Benjamin, Levinas e Derrida, pensa come prossima all’utopia.

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