Lost in translation. Com'è cambiato il linguaggio del restauro (e il restauro) dalla Carta di Venezia ad oggi.
Parlare, e scrivere, di restauro in un idioma piuttosto che in un altro non è cosa facile poiché le parole sono
veicolo di idee e significati ben precisi, ad essi sottesi e sedimentatisi secondo la cultura che li esprime.
Com'è noto, già tradurre il termine 'restauro' nell'inglese 'restoration', nel francese 'restauration', nello
spagnolo 'restauración' oppure nel portoghese 'restauração' non significa affatto, per dirla con Umberto Eco,
"dire quasi la stessa cosa"; e la questione non cambia, anzi diviene ancora più complessa, se ci si addentra
nelle lingue orientali.
La traduzione in lingua, nel campo del restauro, tuttavia, ci porta a due considerazioni.
Tradurre implica, innanzitutto, una riflessione sul significato che la terminologia del restauro assume nel
linguaggio contemporaneo, specialistico e non: si pensi a parole 'chiave' come 'restauro', 'conservazione' e
'monumento'. Nei primi due capitoli di Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti (Liguori,
Napoli 1997) Giovanni Carbonara affronta le diverse declinazioni che la terminologia del restauro ha assunto
nel corso del Novecento, procedendo ad un indispensabile 'chiarimento' lessicale, anche in considerazione
delle diverse correnti di pensiero che si sono andate definendo in Italia e nel mondo.
Tradurre significa, altresì, soppesare i pro e i contro della diffusione della cultura del restauro ad un pubblico
straniero, dovendo far uso di idiomi, come l'inglese, che non sempre si prestano a fare da 'tramite'.
D'altra parte, la riflessione italiana aveva trovato una diffusione internazionale già nel 1964 con la
pubblicazione della Carta Internazionale del Restauro di Venezia dove si proponeva una piattaforma europea
d’intendimenti sulla conservazione dei monumenti del passato nelle quattro lingue - italiano, francese,
inglese, russo - che all'epoca rispecchiavano il bacino culturale occidentale.
Ma la questione si è ulteriormente ampliata e complicata nel corso degli scorsi vent'anni che hanno visto
l'estensione trans-continentale, dal 'culto dei monumenti' al 'patrimonio culturale', fino ad includere oggetti e
ambiti molto diversi, con una conseguente con-fusione del restauro e della conservazione con altri contesti e
significati inediti e non sempre consoni.
Oggi la situazione è tale da far emergere la natura 'politico-strategica' - piuttosto che culturale ed educativa -
delle organizzazioni inter-governative volte alla tutela del patrimonio culturale, preoccupate di perseguire
finalità di peace-keeping a scala mondiale, piuttosto che di rispetto per la traduzione della memoria che ogni
civiltà coltiva per sé stessa; non v'è dubbio che l'attività di tali organizzazioni sia veicolate dall'uso, anche
politico, della lingua inglese. Nel contesto internazionale e interculturale, ad esempio, la specificità del
restauro 'italiano' fatica ad emergere anche a causa del sempre minore ricorso alla lingua italiana per
comunicarne e diffonderne le idee e i principi. A questa progressiva perdita di significato concorre anche
l'uso pervasivo e non sempre corretto della lingua inglese, anche per comunicare tout court concetti che
richiederebbero ampie parafrasi per essere tradotti nel pieno rispetto dei significati.
Ci si chiede, dunque, se il ricorso alla lingua inglese 'uccida' inevitabilmente contenuti e significati del nostro
(e di altri) ambiti disciplinari.
Sono varie e diversamente motivate le posizioni contrarie e a favore di questa tesi, e da esse riverberano i
riflessi della condizione attuale del restauro nel mondo e in Italia. Resta tuttavia il fatto che nell'attuale
congiuntura globale, che esige di rintracciare sinergie e punti di forza comuni, la comunicazione rappresenta
una risorsa ineludibile; il territorio del confronto culturale non può dunque essere altro che trans-nazionale,
seppure a costo di rendere indispensabile l'impiego di un idioma 'di transizione' e ampiam